Laboratorio di Tecnologie Audiovisive

Università degli Studi Roma Tre

Lang Lang il dionisiaco a viale Trastevere

di Roberto Maragliano

“Non facciamo che un dato congiunturale – cioè quello per cui dall’inizio della crisi lavorano meno anche i laureati – si trasformi in una colpevolizzazione dei percorsi formativi. Vorrei lasciare, in proposito, un messaggio chiaro: più studio uguale più lavoro e meglio retribuito. Sia chiaro. È così. Ed è così ovunque nel mondo”. Questa che ho riportato è la reazione di Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, a “La Stampa”, che gli ha chiesto un parere in merito alla pubblicazione, giovedì scorso (26 giugno), del documento Censis titolato La sfiducia crescente nella scuola. Nulla da eccepire, se non il dato, che la ricerca una volta ancora conferma, della stretta connessione tra provenienza sociale, titolo di studio, inserimento nel mondo del lavoro. Certo, oggi, rispetto a ieri, registriamo una debolezza del terzo elemento, ma vedere questo come l’unica spiegazione possibile di una crisi del comparto scuola, non chiamando in causa il primo, mi sembra voler chiudere gli occhi sulla realtà.

Personalmente non credo che si sia in presenza di un dato congiunturale, quanto di un elemento strutturale che il dato congiunturale rende ancora più drammatico di quanto non fosse già prima. E questo dato strutturale è la perdita progressiva di sostanza e senso della formazione scolastica così come ci ostiniamo tuttora a concepirla e praticarla.

In questo mio giudizio sono chiamati in causa l’impianto disciplinare della scuola,  il suo regime didattico, il tipo di relazioni interpersonali che si sviluppano al suo interno e nei rapporti fra interno ed esterno. In questo, personalmente, mi sento di dare piena ragione agli “apocalittici”. Sì la colpa è delle “nuove” tecnologie. In che senso? Nel senso che digitale e rete portano alla luce i vizi di fondo di un modo a dir poco arcaico e comunque inadeguato di concepire e praticare l’apprendimento, quello che lo fa dipendere (o meglio che induce l’illusione di poterlo far dipendere) dall’input dell’insegnamento formale e dall’impegno del singolo, senza che siano chiamati in causa le dimensioni cognitive dell’interesse e del coinvolgimento e quelle relazionali della condivisione e dello scambio.

Come ognuno sa (meglio: dovrebbe sapere) l’apprendimento di rete è partecipazione, coinvolgimento, scambio, condivisione e la componente di insegnamento che vi è inclusa lo è all’interno stesso della pratica dell’apprendere. Non che lì, in rete, tutto vada bene, non sono così ingenuo da sostenerlo: semplicemente, le dinamiche di rete sollecitano componenti dell’apprendimento che la forma scuola ignora, o sacrifica o addirittura reprime. Analogo discorso, poi, andrebbe fatto sul versante della qualità dei saperi proposti nelle aule: conoscenze puramente enunciative, come quelle promosse, anzi “consacrate” dalla scuola, svaniscono a fronte di conoscenze fissate dal mix di sapere e saper fare che è proprio dell’agire digitale (di quello “normale”, intendiamoci bene, non certo della sua versione “scolastica”).

La mia idea è presto detta, e non ho mancato da esplicitarla, più di una decina di anni fa in La scuola dei tre no, e, più recentemente, in Immobile scuola: questa nostra scuola non ha saputo reagire positivamente all’impatto con la dimensione di massa, ha semplicemente aperto le porte degli edifici, senza cambiarne dimensioni, spazi e arredi, rimanendo ancorata ad un’idea aristocratica ed elitaria di formazione. Oggi che, anche per via delle tecnologie diffuse, buona parte della società è diventata educante (anche nel diseducare, ché la cattiva educazione è pur sempre un’educazione) quel che si dovrebbe chiedere all’educazione scolastica è un umile ma tenace impegno a ripensarsi e ridefinirsi dentro il nuovo mondo, avendo come riferimento concettuale, e non solo, le prospettive aperte dalla globalizzazione, per un verso, e, per un altro, dalla multimedialità.

banner_lang_langAssai meglio di quanto io non sappia fare ora, o di quanto la desolante processione dei ministri dell’istruzione abbia potuto evidenziare, a delineare una così importante prospettiva è un non addetto ai lavori, cui però non mancano sensibilità nei confronti di globalizzazione e multimedialità, essendone di fatto un prodotto.
Si tratta del pianista cinese Lang Lang, esponente dell’attuale star system della musica “colta”, sì, proprio quel pazzoide esibizionista che dice di aver avuto l’imprinting del diventare pianista da Tom e Jerry.

Bene, intervistato da “Repubblica” a New York prima di una sua recente esibizione milanese in piazza Duomo, alla domanda sul suo rapporto con la cultura italiana, Lang Lang, il funambolo, dice cose (soprattutto in coda) che bisognerebbe far entrare nella testa e nell’animo di questa nostra disastrata scuola, non tanto perché aggiunga nuove discipline ma perché impari a disciplinarsi al mondo così com’è e com’è destinato a svilupparsi, e che ogni intellettuale preoccupato della degenerazione in atto dovrebbe far sue per rigenerarsi: “[Il mio rapporto con la cultura italiana] è fondamentale, essenziale: i miei due musicisti favoriti sono Scarlatti e Verdi. E non è solo la musica che mi spinge a tornare il più spesso possibile a Roma, Firenze, Venezia. Le più importanti opere d’arte del patrimonio dell’umanità sono concentrate lì. Non dimenticherò mai il mio primo ingresso nella Cappella Sistina, le vertigini, la meraviglia: come può un essere umano fare cose simili? C’è un filo conduttore che unisce il vostro Rinascimento, poi i vostri geni musicali dell’Ottocento, con l’estetica italiana contemporanea, dal design alla moda, alla qualità maniacale del vostro know how gastronomico”.

Un moto di pudore estetico ma anche di rispetto per gli occhi di voi lettori mi ha fermato dal mettere in grassetto le ultime tre righe. Ma, vi prego, leggetele e pensatele e ricordatele come se lo fossero.

Va da sé che questo mio (s)ragionare chiami in causa anche il fallimento dei tanti progetti di inclusione morbida del digitale nella scuola italiana, non ultimo quello che si rifà alla formula del 2.0. Provo a dirlo con una formula: non c’è né ci può essere una via apollinea per l’introduzione del digitale in questa scuola, l’unica via praticabile è quella dionisiaca.

Informazioni su Roberto Maragliano

Il Piccolo dizionario delle tecnologie audiovisive, scritto assieme a Benedetto Vertecchi, è del 1974. Da allora non ho smesso di occuparmi di quelle cose. Da persona che sta dentro il rapporto tra formazione e media, non sono le tecnologie che mi preoccupano, ma gli atteggiamenti superficiali di tanti nei confronti delle tecnologie.

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Questa voce è stata pubblicata il 30 giugno 2014 da in Uncategorized con tag , , , , , , , , .

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