di Roberto Maragliano
Dicevo qualche mese fa, su questo blog, della necessità di trovare una via dionisiaca per introdurre il digitale nella nostra scuola, essendo quelle apollinee fin qui tentate poco produttive. E non avevo ancora letto il settembrino documento del buonismo scolastico, che più apollineo di così difficilmente potrebbe essere…
Citavo comunque, a proposito di dionisismo, il brano di un’intervista ad una star cinese di quella che il critico Quirino Principe da tempo giustamente si ostina a denominare “musica forte”; intervista dove, appunto, il pianista Lang Lang sostiene, a proposito della cultura italiana: “C’è un filo conduttore che unisce il vostro Rinascimento, poi i vostri geni musicali dell’Ottocento, con l’estetica italiana contemporanea, dal design alla moda, alla qualità maniacale del vostro know how gastronomico”.
Ecco, questo intendevo e intendo ancora per via dionisiaca al ripensamento della scuola e della sua funzione: quanto dovrebbe spingerci a sparigliare le carte, e dunque ad infrangere la continuità con un modello epistemologico ereditato dall’Ottocento e con un modello didattico ereditato da Cinquecento; quanto, di conseguenza, dovrebbe metterci nelle condizioni di valorizzare, proprio in forza dell’impulso che la diffusione di massa della multimedialità digitale e di rete oggi consente, l’inestricabile intreccio tra sapere scientifico, sapere tecnologico e sapere umanistico e, parallelamente, a rinforzare, su un piano che vada anche al di là delle aperture del digitale, l’intreccio fra teoria e pratica, dunque fra pensiero e manualità. In breve, si tratta di trovare dentro di noi, e dunque nella nostra stessa storia, il coraggio di avviare un ripensamento complessivo e radicale del fare scuola (e università), non già procedendo verso l’ignoto, ma riandando verso ciò che più autenticamente costituisce la matrice più profonda della cultura italiana, anche e soprattutto in una prospettiva di globalizzazione.
Trovo conferma di questa suggestione in ciò che Stefano Albertini, direttore a New York della Casa Italiana Zerilli Marimò, dichiara oggi a “La Stampa”, in occasione degli Stati generali della lingua italiana nel mondo che si aprono a Firenze, e cioè che gli studenti della New York University che scelgono l’italiano “sono appassionati di opera, di storia dell’arte, di gastronomia“.
Non so se e come quella Università dia una risposta positiva a questo tipo di passione. So che che la nostra università e la nostra scuola non sanno come coltivarla e forse nemmeno sono in grado di sospettare che esista. Basti pensare al fatto che i timidi tentativi di Moocs nostrani sono perlopiù in lingua inglese e non toccano nessuno degli argomenti indicati da Lang Lang e Albertini.
Per concludere, mi scuso ma sento il dovere di ripeterlo e ripetermi, come fanno i vecchietti, e pure urlandolo col neretto: ciò che risulta più drammatico, nello stato di crisi delle nostre istituzioni educanti, è l’indifferenza alla questione di fondo del che cosa e del come si impara al loro interno.