Laboratorio di Tecnologie Audiovisive

Università degli Studi Roma Tre

Non sbagliando s’impara, ma… imparando si sbaglia! (Storia di un’odissea linguistica)

di Valentina Pescatore*
L’Odissea. Ne ho sempre subito il fascino. Il viaggio di Ulisse tra capricci e bizzarrie del mare, mostri e tentazioni, inganni e scoperte prima di ricondurre i suoi passi verso l’amata Itaca; metafora implicita della vita, è stata anche l’immagine suggestiva che ho scelto di conferire alla mia tesi di laurea: un lavoro sull’errore linguistico, che etimologicamente ricorda proprio smarrirsi, perdersi, ma solo perché un viaggio è stato intrapreso. Il mio viaggio dentro il viaggio dell’apprendimento prende avvio da una notizia rimbalzata su tutti i media: Matteo – alunno di una scuola primaria della provincia di Ferrara – si esibisce in un errore bello, definendo un fiore petaloso. L’Accademia della Crusca – interpellata in merito – risponde a Matteo e alla sua insegnante che petaloso è una parola ben formata: petalo + oso > petaloso= pieno di petali, con tanti petali, come in italiano esistono pelo + oso > peloso= pieno di pelo o coraggio +oso>coraggioso= di tanto coraggio.
Questo piccolo episodio diventa il leitmotiv del mio lavoro: gli errori non sono solo belli, come ricordava il buon Rodari, ma spesso sono utili come il pane; a questo punto, la domanda risulta lecita: utili a cosa e a chi? Se chiedere è lecito, rispondere però è cortesia! La mia è ovviamente un’ironica provocazione, eppure la speranza sottesa è che, al termine del post, l’utilità degli errori risulti evidente a tutti e non necessiti di un’ulteriore spiegazione.
Pessoa scrisse: «i viaggi sono i viaggiatori» e così, nel tentativo di scoprire il ruolo che rivestono gli errori nell’apprendimento linguistico, è stato necessario innanzitutto misurarsi con i protagonisti di una classe della scuola primaria Angelo Castellani di Nettuno; i bambini sono stati sottoposti ad alcuni esercizi mirati relativi ad errori molto diffusi e comuni, soprattutto nei primi anni dell’infanzia (es. i plurali di uovo e dito, la i con valore puramente grafico nei casi di scienza o coscienza). Interessante notare che gli errori non sono però emersi attraverso questi esercizi, ma in contesti informali; durante lezioni di altre materie, per esempio, molti bambini si sono riferiti ai “diti” piuttosto che alle “dita”, hanno coniato forme verbali come “dicete” e “facete”,  ed è risultato faticoso l’uso del congiuntivo.
Errori apparentemente banali, che la scuola del metodo si limiterebbe a sottolineare, sanzionare e correggere in una sequenza ripetitiva, instancabile. Eppure, un fenomeno linguistico chiamato analogia rivela come tali errori non siano casuali, ma sistematici e necessari durante il percorso di apprendimento; i bambini – infatti – così come coloro che apprendono l’italiano come seconda lingua, modellano le forme desuete su quelle note, che percepiscono più naturali: proprio questa è la forza trainante dell’analogia. “Diti” è modellato su tutti i plurali uscenti in –i, che sono i più comuni nella nostra lingua e che, in un’ipotetica sequenza di apprendimento, occupano i primi posti; allo stesso modo, “facete” e “dicete” nascono da una proporzione di natura analogica (dico sta a leggo, come facete sta a leggete) ed è sorprendente che tale identico meccanismo funzioni in altre lingue (es. in francese *vous disez, anziché vous dites, modellato proprio sull’esistente vous lisez). Persino il congiuntivo, prima di essere interiorizzato, viene creato attraverso un’analogia: la classe da me sottoposta ad osservazione è inciampata in numerosi “che io capisco” realizzandoli proprio sulla falsariga dell’indicativo. 
Tutti questi errori sembrerebbero parlare, suggerendo quali siano le difficoltà insite nella lingua e quali elementi siano invece acquisiti in modo così naturale da funzionare come modelli; non solo, ma gli errori spesso suggeriscono una direzione iconica della lingua: da alcuni studi realizzati sulla lingua indonesiana, i bambini apprenderebbero più facilmente i plurali che prevedono la reduplicazione della forma singolare (es. anak = bambino, anak-anak = bambini), e questa sarebbe la ragione celata in alcuni errori commessi dai bambini britannici. Infatti, alcuni studi hanno riscontrato la fatica dei bambini nel memorizzare forme irregolari di plurale quali “mice” (pl. di mouse) o “feet” (pl. di foot) e la loro tendenza a realizzare piuttosto forme sigmatiche *mouses e *foots; l’aggiunta della s suggerirebbe, quindi, un’idea di molteplicità rispetto alla forma in cui la s manca e una forma come “mice”, addirittura più breve del suo singolare, risulterebbe per questo più confusa per i bambini.
Grazie all’ispirazione offerta da un libro di Rodari, proprio su alcuni errori che rispecchierebbero l’iconicità della lingua, insieme ai bambini della classe elementare di cui si ho già parlato sopra, abbiamo cercato di scoprire cosa potesse significare una “febre”, con una b fuggita via o un “libbro”, invece, con una b di troppo. Questo esercizio ha permesso un volo libero della loro creatività, ma è affascinante notare come siano emerse descrizioni coerenti con la suggestiva ipotesi dell’iconicità della lingua: libbro indica un manuale pesante, estremamente noioso, mentre una febre è una febbriciattola, lieve, causata da un banale raffreddore; la sottrazione o l’aggiunta di un elemento comporterebbe una ricaduta direttamente proporzionale sul significato.
Infine, nel tentativo di riassumere le tappe di questo nostro viaggio e giungere alla sospirata Itaca, occorre tornare all’esempio di partenza: il neologismo petaloso di Matteo. Sebbene si sia servito di una parola che non rientra nel repertorio standard della lingua, coniandola ha mostrato di avere inconscia consapevolezza delle regole di derivazione. Da qui, la decisione di mettere ancora una volta la classe alla prova e giocare con suffissi e prefissi per creare parole ad hoc; ne sono uscite professioni nuove e tutte da scoprire, come quella del *capicista, colui che ha l’arduo compito di far emergere le capacità di tutti o quella del *meritista, colui  che merita un riconoscimento per le sue erculee prodezze e sono nati, inoltre, sentimenti che sfociano da una cristallina risata e una buona dose di ironia (signori e signore, si parla di *amorismi: amori che fanno tanto ridere). Sono solo alcuni esempi che non mostrano semplicisticamente la produttività della lingua, ma la capacità dei bambini di servirsi delle regole morfologiche di derivazione: parole come capicista o meritista, si servono del suffisso –ist per indicare una professione, proprio come in italiano esistono tennista o giornalista. È stato evocato anche un regno ai confini del mondo, ove impera e comanda l’incanto: Incantia, col suffisso –ia che di fatto è presente in molti nomi di luoghi geografici (es. Grecia, Italia).
Ormai, siamo giunti a intuire da vicino il profilo di Itaca: la fine del nostro viaggio, ma non la conclusione del viaggio della lingua; questa muta continuamente insieme a noi e spesso lo fa anche attraverso i nostri errori, basti pensare al passaggio dal latino classico a quello volgare. Proprio per questo, la scuola non dovrebbe limitarsi a sanzionare gli errori e inorridire al loro cospetto, trattandoli come mostri e tentazioni da cui fuggire, ma dovrebbe imparare a conoscerli, a guardarli più in profondità. Solo così si potrà comprendere non  solo che sbagliando si impara, ma che imparando si sbaglia, perché alcuni errori sono proprio spie di un viaggio di apprendimento intrapreso!

*Mi sono laureata a luglio del 2016 in Lettere Moderne, con una tesi poco accademica e molto…”petalosa”! Attualmente, sono una studentessa di Scienze della Formazione Primaria a Roma Tre: ho scelto di farmi trascinare da questo scirocco di cambiamento, perché mi affascina la didattica un po’ folle, poetica e colorata che si può sperimentare con i bambini. Da quando frequento questa facoltà, mi sto anche innamorando della ricerca su nuove tecnologie e frontiere didattiche, nel tentativo appassionato di raccogliere l’attenzione dei piccoli Pollicini che ci circondano. Nel tempo libero leggo, scrivo, credendo da sempre che la scrittura sia la mia voce più viva e vera, e poi rincorro un amore pendolare, degno della nostra nuova realtà 2.0, dove le distanze non esistono…o quasi.

Informazioni su ornellamartini

Vivo e lavoro tra città e campagna: Roma e Rieti. Insegno all'Università e cucino al Fienile di Orazio. Lavoro la creta, leggo, organizzo attività educative all'insegna dell'emozione per bambini e ragazzi. Adoro stare là da noi in campagna, ascoltare l'Opera, chiacchierare con mio marito e mia figlia. E poi mi piace fare e comprare bigiotteria creativa, camminare, andare a cavallo e tante altre cose che non c'è bisogno di dire tutte qui.

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