Laboratorio di Tecnologie Audiovisive

Università degli Studi Roma Tre

Autoeducarsi al selfie. La pedagogia

di Roberto Maragliano

Uno dei problemi più grossi che deve fronteggiare chi, come me e come il gruppo LTA, cerca di proporre una via “culturale” all’uso delle tecnologie digitali in ambito educativo è di fuggire le logiche del conflitto “pro/contro”. L’avrò ripetuto mille volte, ma tant’è, lo schema mi ripiomba addosso, o meglio me lo rigettano regolarmente contro. E allora, si tratta di chiarirlo una volta di più. Personalmente non sono a favore di una svolta digitale più di quanto mi trovi perplesso la  pochezza culturale e pedagogica che caratterizza tante delle proposte e pure ahimè tante delle azioni correnti in fatto di “nuova tecnologia”. Almeno, nel nostro paese. E dunque, non mi reputo a favore delle tecnologie, se non nel senso che mi riconosco nell’idea che le tecnologie, tutte, pure la stampa ovviamente, possano essere occasione e oggetto di analisi e riflessione, in ambito educativo. E di critica, anche.

Di qui l’esigenza, che sento forte, che ci misuriamo con tutto ciò che la pratica del digitale porta alla luce, del mondo e di noi stessi: solo così potremo metterci nelle condizioni di produrre una pedagogia  all’altezza dei problemi che questo “venire alla luce” di cose precedentemente nascoste o non viste dichiaratamente pone. È l’effetto luminol di cui parla Maffe De Baggis. In questa accezione, a suo modo onerosa, non c’è problema tra quelli che la tecnologia digitale rende manifesti che uno possa scrollarsi di dosso, considerandolo poco degno di analisi: e, badate bene, in gioco non ci sono mai, o quasi mai, interrogativi sulla tecnologia ma interrogativi sulla componente “umana” che la tecnologie rende manifesta. L’abbiamo apertamente sostenuto, con Mario Pireddu, fin dal titolo del nostro manuale/saggio: in ogni esperienza di media sono inscritte una quota di storia e una quota di pedagogia, che ognuno in un qualche modo assorbe e fa sua mentre vive quell’esperienza. Il problema sta appunto nel non chiudere gli occhi ed imparare a vederle, queste dimensioni: la storia e la pedagogia che ci fanno lettori nel mentre scorriamo le pagine di un libro, quelle che ci fanno spettatori cinematografici, e via via tutte le altre fino alla storia e alla pedagogia che sono incluse nel nostro essere webutenti (ammesso che lo siamo).

Ecco allora che acquista un senso importante, e a suo modo impegnativo, interrogarsi su un fenomeno apparentemente di superficie o, come suol dirsi, di “moda” e “consumo” come il selfie (il videopost – videoselfie? – riprodotto sopra fa parte della serie Parlodigitale di Psychiatry on Line). C’è, tutta da indagare, una pedagogia interna al selfie. E pure, una storia. In questo post mi soffermo, sia pure in modo rapsodico, sul primo aspetto, in un prossimo tratterò allo stesso modo il secondo. Fermo restando che queste “piste di riflessione” potranno servire a chi ha o si dà compiti educativi in primo luogo per se stesso e poi come suggerimenti per attività che potranno ricalcare tali piste o ispirarsi ad esse. Cosa conta, comunque, è che prendiamo sul serio la provocazione del selfie. Ché tale è, soprattutto se riesce a provocare pensiero.

specchioAd un primo e immediato livello è doveroso vedere in questa pratica un equivalente adulto della fase dello specchio. Esattamente come il bambino costruisce il suo Io riconoscendosi allo specchio e tanto più lo fa quanto più incontra allo specchio lo sguardo della madre (o di chi per lei), dunque si riconosce per come l’altro lo vede, allo stesso modo l’adulto che si autoritrae lo fa (anche) per vedersi e riflettersi nello sguardo dell’altro. La rete garantisce tutto ciò: sia la moltiplicazione delle immagini di se stessi sia la moltiplicazione degli sguardi. Il narciso non è mai solo: vede, cerca di vedere se stesso come altro, come lo vede un altro e il digitale gli garantisce, appunto, condivisione. Appunto: autoritratto e condivisione.

Ma che cosa ritrae il selfie? Generalmente la parte superiore del corpo. Come chiamarla? Di parole ne abbiamo molte, a disposizione. Volto, viso, testa, faccia: ognuna con un suo particolare colore,Klee che la fa non intercambiabile con l’altra. Se dico ad uno/a conoscente: “Che bella testa che hai”, dico qualcosa di profondamente diverso da “Che bel viso” o “Che bel volto” o, addirittura “Che bella faccia”. Quante espressioni e quanto diverse, apparentemente per la stessa cosa. Perché? Perché lì, in quella “cosa” si concentra e manifesta quanto più di umano c’è nell’uomo, cioè il passaggio/missaggio di corpo e spirito, biologia e cultura. E pure tecnologia: l’occhiale, il taglio del capello, il trucco, ecc. Un concentrato che già di per sé è complessità e che facendosi comunicazione (a sé e all’altro) produce ulteriore complessità. È così che si incrementa quella che Marco Belpoliti chiama la società facciale.

“Se un poliziotto ci ferma per una infrazione e ci chiede la patente o la carta di identità, ciò che pretende è che noi assomigliamo alla fotografia più che la fotografia assomigli a noi”. Così il fotografo Fernando Scianna ne Lo specchio vuoto. E ancora: “Deleghiamo sempre più all’immagine la nostra identità, e del nostro corpo facciamo un’icona ritoccandolo all’infinito. Operazione Permis_de_conduire_mamanmagica che si pratica da millenni, ma che oggi è diventata una prassi”. Nel farsi ritrarre dal fotografo, diceva Barthes, io sono quello che credo di essere, quello che vorrei si credesse che io sono e quello che il fotografo crede che io sia. Operazione che generalmente non riesce, come dimostra il fatto che raramente siamo contenti del modo in cui l’altro ci ha ritratto. Dunque, il selfie, eliminando l’altro, nella fattispecie il fotografo, nel generarsi in infinita sequenza, porta a soluzione il problema del rapporto fra identità, verità, tempo. Io sono quello e quello e quello. Scianna parla di “operazione apparentemente salvifica, in realtà disperata, autodistruttiva dell’identità”. Si può capire, e giustificare questo giudizio, pensando da dove proviene. Ma non si può escludere dall’orizzonte del nostro pensare il selfie la dose di rassicurazione che deriva dalla possibilità di delegare la costruzione/certificazione di identità a questa sorta di specchio: un “virtuale” che mai smette di vederci e farci vedere e che, così facendo, regala a noi e a chi condivide le nostre immagini un’identità “autentica”, non costruita, in quanto perennemente cangiante: l’io e lo Zelig assieme, l’unonessunocentomila di quell’unica continua sequenza personale che finalmente assomiglia a noi.

Questo, per quanto riguarda la pedagogia inscritta nella pratica del selfie. Per la storia, ad un prossimo post.

Informazioni su Roberto Maragliano

Il Piccolo dizionario delle tecnologie audiovisive, scritto assieme a Benedetto Vertecchi, è del 1974. Da allora non ho smesso di occuparmi di quelle cose. Da persona che sta dentro il rapporto tra formazione e media, non sono le tecnologie che mi preoccupano, ma gli atteggiamenti superficiali di tanti nei confronti delle tecnologie.

3 commenti su “Autoeducarsi al selfie. La pedagogia

  1. soudaz
    26 febbraio 2015

    L’ha ribloggato su Il Blog di Tino Soudaz 2.0 ( un pochino)e ha commentato:
    Molto interessante

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